I Carracci

André Chastel in: L'arte. Un universo di relazioni. Le mostre di Bologna 1950-2001, a cura di Andrea Emiliani e Michela Scolaro, Bologna, Rolo Banca 1473, 2002
1 Settembre - 31 ottobre 1956

“Le mostre di quest’anno in Italia sono state dedicate che non godono della fama “internazionale” dei grandi maestri o che, come i Carracci, hanno visto scemare la propria popolarità presso il pubblico moderno. Sono invece pittori di impronta squisitamente italiana; sono quasi tutti dotati di una intensità di effetti e spesso di un ampio ventaglio di sentimenti – freddezza affettata o al contrario esuberanza, spessore, ironia - che di primo acchito ci potrebbero sgomentare e risultare totalmente estranei, ma che rispecchiano una grande sensibilità e una forte personalità. A coronamento di tutte queste manifestazioni e in un certo senso a stabilire un nesso tra loro, la tanta attesa mostra sui Carracci che, per evitare la calura dell’estate emiliana, sboccia come un fiore d’autunno.”

“Una questione di maturità”
“È facile per tutti sbagliarsi nel giudicare gli artisti italiani del 1570 o del 1600 basandosi sui quadri esposti nei musei ed è tanto più facile per i francesi, avvezzi ai piaceri dei quadri da cavalletto. La pittura italiana è sui muri, decora i soffitti tra modanature e stucchi; ricopre le pareti spesso immense dei palazzi. È innanzitutto di un respiro monumentale, secondo gli antichi canoni mediterranei e ci faremmo un’idea incompleta se non addirittura errata di Pontormo se ignorassimo le sue grandi decorazioni lineari e leggere o, ancora peggio, se ignorassimo di Cambiaso le folli e strabilianti mostruosità sospese alle volte dei palazzi, soprattutto le battagli epiche, tra Giulio Romano e Géricault, a palazzo Spinola (un tempo Antonio Doria) dove esprime il meglio del suo estro più genuino. Sarebbe opportuno un breve itinerario dei palazzi che bisogna visitare: dovrebbe pensarci chiunque organizzi una mostra di questo genere.

È l’aspetto decorativo su cui si concentrano maggiormente i Carracci. Ludovico e i due cugini, Annibale e Agostino, si fanno notare per la prima volta a palazzo Fava, verso il 1584; poi già con l’ampiezza e la varietà dello stile ‘eroico’ a palazzo Magnani, verso il 1590, entrambi palazzi di Bologna; e un pregevole recente studio ha dimostrato come i molteplici aspetti della loro arte, la tensione verso una sorta di ‘verismo’ che prende le distanze dall’affettazione di moda, una maggiore unità di toni, l’interesse per il paesaggio, nascono dalla creazione di queste composizioni romanzesche, storiche, un po’ cariche, in cui si aggirano Giasone, Medea, Romolo e Remo. Della galleria di palazzo Farnese, potente creazione di Annibale dal 1597 al 1604, che suscita l’indignazione di La Bruyère al vedere ‘le impudicizie degli dei, la Venere, il Ganimede e gli altri nudi dei Carracci […] fatti per dei Principi della Chiesa’ ma che è una delle prime e già delle più alte espressioni della vitalità ‘barocca’, si è trattato in tutti i modi possibili; in una splendida collezione costituita da oltre 250 disegni raccolti con estrema cura, una cinquantina riguarda alcuni particolari della galleria: figure in movimento, busti di ignudi, studiati come elaborati ingranaggi. Si entra nell’atelier dell’artista, dove tutto prende forma. L’espressione, concepita con tanta generosità da Cesare Gnudi e dai suoi collaborati, è quindi di una fedeltà e di una precisione esemplari.

Non si può dire comunque che le opere dei maestri di Bologna, quei fondatori dell’Accademia degli "Incamminati” o dei “Desiderosi”, oggetto di una ridda dei pregiudizi, siano di un gusto attuale. Tacciate di ‘classicismo, accademismo, eclettismo’ sembra ci sia impedito di goderne. Obbiettivo primario della mostra, con i suoi circa 115 quadri, di cui più della metà di Annibale, il ‘temperamento’ della scuola e una quarantina del cugino Ludovico, la ‘testa’ del movimento, è proprio quello di recuperare tutto ciò che andrebbe perduto se ci accontentassimo di pregiudizi e definizioni preconcette. A proposito dell’ultima delle tre definizioni arbitrarie, quella dell’eclettismo, Denis Mahon ha dimostrato con spirito come la famosa ricetta dello stile ideale del quadro-cocktail -‘la potenza di Michelangelo, la naturalezza di Tiziano, la purezza di Correggio, l’armonia di Raffaello, ecc.- non corrisponde affatto all’insegnamento dei Carracci; è stata coniata a posteriori, a titolo di encomio, dagli storici bolognesi e questa ‘aggiunta di valore’ che a nostro modo di sentire è invece il modo migliore per condannare uno stile, è un ingenuo tentativo di tessere le lodi supreme. Voler cercare in queste opere un mosaico di elementi e di intenti, significa non concedersi il piacere di apprezzare quello che è stato il vero apporto creativo dei Carracci, che consiste proprio nel rendere la flessibilità e l’unità laddove i predecessori si davano alla sovrapposizione e al paradosso. La Resurrezione del Cristo (Louvre) del 1593 di Annibale è stata acclamata da tutti gli storici antichi come vero evento, per la facilità e la foga con cui tutti i motivi sono coordinati. Parimenti, nella Conversione di San Paolo (Bologna) è lo stesso Ludovico a voler essere copioso, completo, senza cadere nella frammentarietà; nella splendida Predica del Battista (id.) del 1592, , dai forti giochi di rosso scuro e arancio, aveva chiarito con vigore la sua posizione nei confronti dei veneziani, con più malinconia della sognante Trinità (Vaticano); sarà nel tentativo di indagare e di rinnovare l’arte delle ‘grandi macchine’ dopo la scomparsa di Annibale, che Ludovico diventerà più pesante e discutibile, ma sempre sicuro nel Martirio di Santa Margherita in cui il boia oscilla curiosamente su di un piede.

È altrettanto facile controbattere all’appellativo di accademico. Non l’incertezza, ma la curiosità d’animo e la maestria dello stile ispirarono i Carracci. In Annibale troviamo una temerarietà che si esprime a volte nel brio naturalista e gioviale, nel senso del soggetto terra terra, di cui sono uno splendido esempio i famosi La bottega del macellaio (Oxford), Il ragazzo che ride (Galleria Borghese), e altre volte con il suo esplorare paesaggi lussureggianti e unificati, o ancora con una delle stupefacenti immagini pagane, un po' sfrenate, di cui è ricca la galleria Farnese. La varietà di intenti è testimonianza di una cultura forte e attiva: impossibile coglierne la sostanza se si parte dal preconcetto che l’epoca fosse preda di chissà quale tirannia umanista (e da parte di chi?) mentre in realtà tutti i motivi antichi sono reinterpretati con passione e se ci si dimentica inoltre del tacito accordo con la Chiesa della Controriforma per riportare ogni licenza nell’arte profana e dare maggiore serietà all’arte sacra. La scena dell’Elemosina di San Rocco, sovraffollata e davvero un po’ complessa (Dresda) e la Pietà, semplice, intensa, con i suoi verdi e i viola avvincenti (Napoli) sono indicativi delle nuove tendenze scoperte da Annibale. Avendo ben chiari questi concetti basilari, può restare incerta, senza creare problemi, l’attribuzione di un quadro a uno o l’latro dei cugini, nonostante l’impegno profuso per essere precisi nella mostra di Bologna.
‘Capire i Carracci è una questione di maturità’, scriveva vent’anni fa Roberto Longhi, l’unico storico all’epoca, con Heinrich Bodmer, a dedicare ai bolognesi tutta l’attenzione che ora ci serve. La maturità e la cultura costituiscono la vera prerogativa dei Carracci. Sono i diretti antesignani della poetica classica e di quella dei Barocchi, Poussin e Rubens, per la loro profonda attenzione per la natura ma anche per quel loro sentire la pittura come un tutt’uno che essa è come un romanzo o una epopea continua, ci cui ogni pittore è l’erede.”

[“Le Monde”, settembre 1956]

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